Type de texte | source |
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Titre | La poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta |
Auteurs | Castelvetro, Lodovico |
Date de rédaction | |
Date de publication originale | 1570 |
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Auteurs de la traduction | |
Date de traduction | |
Date d'édition moderne ou de réédition | |
Editeur moderne | |
Date de reprint | Reprint Münich, W. Fink, 1969. |
(II, 1), t. I, p. 98-103 (éd. 1570, fol. 38v-45)
Καὶ τὸ χαίρειν τοῖς μιμήμασι πάντας etc. Tutti gli uomini, cioè e fanciulli e attempati e idioti e intendenti, si ralegrano delle opere fatte per rassomiglianza, per loro o per altri ; il che Aristotele pruova così. Degli animali e di quelle cose che veramente essendo ci spiacciono e sono da noi abominate, quali sono biscie, botte e carogne, le figure, quanto sono con più diligenza dipinte e per conseguente più vicine alla verità, tanto più ci dilettano ; adunque la rassomiglianza è d’allegrezza a tutti. Ma peraventura ciò non è indifferentemente vero, percioché la rassomiglianza si fa alcuna volta della cosa rassomigliata in tutto, e alcuna volta in parte. Quando si fa in tutto, se la cosa rassomigliata ci spiace e è da noi abominata, parimente la rassomigliante ci dispiacerà e sarà da noi abominata. Ma quando la rassomiglianza si fa in parte, se la cosa rassomigliante non ci rappresenta la parte spiacente, poiché non ha quello che ci fa spiacere la cosa rassomigliata, non è maraviglia se ci diletta. E tali sono le biscie, le botte e le carogne dipinte, le quale nella rassomiglianza non hanno altro che i liniamenti e i colori simili alle vere, e per conseguente non hanno il veleno o il puzzo, né ci rappresentano la malizia o il nocumento loro, che sono le cagioni per le quali abominiamo somiglianti animali e cose, con un’altra malizia e nocumento d’uguale dispiacere. Ora non è vero quello che si prende Aristotele per cosa manifesta, che tutte le maniere d’uomini prendano diletto dell’opere fatte per rassomiglianza per loro o per altri ; conciosia cosa che altri si contristi quando s’aviene ad una pittura o statua o altro che per rassomiglianza gli rappresenti o gli rinovelli la memoria d’alcuna azzione d’infamia a sé o a’ suoi amici, sì come ancora si confonde di vergogna e s’arrossa e per conseguente sente dolore la persona onesta quando s’abbatte ad alcuna memoria di disonesta lascivia rappresentata per rassomiglianza. Io lascio di dire che la tristezza puo ancora occupare altrui per sazietà, quando vede rassomigliare cose troppo agevoli a farsi, o per disprezzo, quando non sono rassomigliate bene, o per invidia, quando sono troppo bene rassomigliate.
Αἴτιον δὲ καὶ τούτου, ὅτι μανθάνειν τοῖς φιλοσόφοις ἥδιστον etc. Rende Aristotele la ragione perché gli uomini tutti prendano diletto del mirare l’opere fatte per rassomiglianza, la quale è questa : cioè lo ’mparare è cosa dilettevolissima ad ogni maniera di gente, quantunque gl’idioti non imparino tanto quanto i filosofanti, né v’abbiano tanta parte di diletto; ma perché non si può riconoscere, alcuna rassomiglianza che non s’impari, seguita che ogni rassomigianza, in quanto è rassomiglianza e è riconosciuta per tale, diletti tutti i riconoscitori ; volendo secondo me dire Aristotele che il comporre con lo ’ntelletto insieme le similitudini e le dissimilitudini che sono in diverse cose è il mezzo da imparare, o lo ’mparare che sia ciascuna cosa. E questo così fatto comporre è cosa dilettevolissima a tutti, conciosia cosa che sia propria dell’uomo e non commune con altro animale. La quale di necessità sempre cade nel riconoscere la rassomiglianza ; percioché, se io riconosco pogniamo una effigie dipinta d’una persona certa, perciò lo riconosco, perché con la mente compongo insieme i liniamenti e i colori e la misura e altro simile dell’effigie e dell’effigiato, e in questo mezzo di comporre e dello ’mparare pervengo alla notizia che questi è colui, cioè che questa effigie è stata fatta per effigiare e per rassomigliare quella persona certa. Per che, se io non avessi veduta prima la persona effigiata, io non avrei potuto comporre insieme le similitudini trovantisi in diverse cose, né pervenire a questa riconoscenza, non n’avendo veduta altro che una, né attingere questo diletto surgente dal fonte del riconoscere la rassomiglianza. Ora, perché gl’idioti non possono per lo rintuzzato agume del loro intelletto penetrare tanto oltre in trovare e in riconoscere le similitudini e le dissimilitudini in cose diverse quanto fanno i filosofanti, ma truovano e riconoscono solamente quelle che sono vie più che apparenti, là dove i filosofi investigano e discernono ancora le più riposte e nascose, quindi aviene che gl’idioti non hanno così larga parte dello ’mparare né così pieno diletto come i filosofanti. Ora io non niego che questa cagione assegnata da Aristotele perché la rassomiglianza arrechi diletto agli uomini non sia vera, ma niego bene che sia sola, percioché ce ne sono dell’altre le quali non erano da lasciare da parte. E ciò sono, prima, perché si ralegra l’umana natura quando vede che non è da meno che gli altri animali, rassomigliando essa l’azzioni della sua spezie sì come rassomigliano per instinto naturale quelle delle loro spezie ; e appresso molto si ralegra quando rassomiglia l’azzioni degli altri animali, e spezialmente quelle che paiono quasi proprie, come è il notare de’ pesci; né si ralegra punto meno quando rassomiglia l’azzioni della natura o della fortuna o del corso delle mondane cose con varie arti : pittura, scoltura, musica, poesia e simili, parendole essere una nuova natura o fortuna o corso delle mondane cose e avere non so che di celestiale. Senza che si ralegra ancora, oltre a queste cagioni procedenti da vana gloria, per molte altre procedenti da utilità che trae dalla rassomiglianza: o imparando cose non più sapute, sì come altri impara pogniamo da una effigie dipinta del leofante come è fatto quell’animale, non essendogli mai stato agio prestato di vederlo per la lontananza del paese dove nasce ; o imparando quello senza noia per rassomiglianza che altri non potrebbe con la cosa rassomigliata, con tutto che gli fosse prestato agio di vederla, come molti, non potendo senza noia guardare le membra umane secate per imparare a medicare, le considerano dipinte con diletto e ne traggono utili insegnamenti; il che può similmente avenire delle biscie, delle botte e di simili cose schifevoli ; o rinovellando la memoria delle cose smarrite già imparate, o conservando la memoria tuttavia e rinfrescandola delle cose non ismarrite. Ma perché Aristotele usa l’esempio del diletto che si prende della rassomiglianza della pittura per farci conoscere il diletto che si prende della rassomiglianza della poesia, è da sapere che l’esempio non è il migliore del mondo, conciosia cosa che la pittura diletti meno in quella parte nella quale sommamente e solamente la poesia diletta, e in quella dove la pittura diletta più e sommamente, la poesia non solamente non diletti, ma spiaccia ancora. Percioché la pittura, avendo riguardo alla materia che prende a rassomigliare, si dee dividere in due parti: nell’una, quando rappresenta cosa certa e conosciuta, come uomo certo e speziale, pogniamo Filippo d’Austria re di Spagna, e nell’altra, quando rassomiglia cosa incerta e sconosciuta, come uno uomo incerto e in generale. Ora quando la pittura rassomiglia uno uomo certo e conosciuto, come Filippo d’Austria re di Spagna, diletta molto più di gran lunga che non fa quando rassomiglia uomo incerto sconosciuto e in generale. E la ragione è evidente, percioché minore fatica e minore industria mostra il dipintore in fare la figura dell’uomo incerto e sconosciuto, che non fa nella figura dell’uomo certo e conosciuto ; e per ogni picciola dissimilitudine che sia tra l’effigie e l’uomo effigiato non può essere ripreso o riprovato nella figura dell’uomo incerto, non potendo cotale figura aver difetto così grande che non possa essere scusato, trovandosi tanti diversi uomini di forma al mondo fuori de’ termini de’ quali basti che non esca la figura dell’uomo incerto. Io dico che questa è la ragione perché diletti più l’una figura che l’altra, e non quella ragione che assegna Leone Battista Alberti, cioè perché la figura della sconosciuta non è presa dalla natura, esendo l’una e l’altra presa dalla natura almeno per possibilità. Ora la poesia si dee secondo la materia che si prende a rassomigliare similmente dividere in due parti : nell’una, quando rassomiglia cosa certa e conosciuta, come una istoria certa e avvenuta, come pogniamo la guerra citadinesca avenuta tra Cesare e Pompeo ; e nell’altra, quando rassomiglia cosa incerta né conosciuta in ispezialtà, come pogniamo la venuta d’Enea da Troia in Italia. Ma quando la poesia rassomiglia una istoria certa e avenuta e conosciuta, non solamente non ci diletta, ma ci dispiace ancora, e ci dispiace tanto che non può ritenere il nome pure di poesia, e quindi è riprovato Lucano e Silio Italico e alcuno altro, e rimosso dalla schiera de’ poeti. Ma se la poesia rassomiglia istoria incerta e non conosciuta in ispeziale, ci diletta fuori di misura. E la ragione parimente è manifesta, che il poeta nell’istoria certa e conosciuta particolarmente non dura fatica niuna né essercita lo’ ngegno in trovare cosa niuna, essendogli porto e posto davanti, in tutto dal corso delle cose mondane. Il che non aviene nell’istoria certa e sconosciuta, convenendo al poeta aguzzare lo’ ntelletto e sottigliare in trovare o il tutto o la maggior parte delle cose ; e quindi viene commendato e ammirato Virgilio che abbia fatto così. Adunque la rassomiglianza delle pittura e la rassomiglianza della poesia non solamente non sono simili o non operano simile effetto, ma sono ancora contrarie e operano contrario effetto, facendosi nella pittura stima della rassomiglianza di fuori, la quale appare agli occhi per gli colori, e nella poesia della rassomiglianza interna, che si dimostra allo’ ntelletto per gli avenimenti delle cose composte insieme. Io non lascierò ancora di dire che Aristotele non si contentò semplicemente d’addurre l’essempio della pittura a provare che tutti gli uomini godano della rassomiglianza, ma soggiunse ancora così fatta ragione : che perciò la rassomiglianza nella pittura, e per conseguente in ogni altra cosa, ci diletta, percioché noi impariamo come questa figura è il cotale uomo, in guisa che vegniamo per mezzo della figura a conoscere l’uomo figurato. Ma è da por mente che il mezzo per lo quale dobbiamo imparare sempre dee essere più conosciuto che non è la cosa che per quello dobbiamo imparare ; sì come, per cagione d’essempio, se io volessi dimostrare e fare che altri imparasse che due dottori in uno medesimo studio, insegnando una medesima dottrina con pari salario, stimandosi l’uno da più che l’altro e l’altro da più che l’uno, non potranno lungamente essere concordi tra loro, prenderei uno essempio molto conosciuto per mezzo di due galli, uguali di forza e redentisi ciascuno avanzare l’altro, posti in una medesima corte di galline, che non istanno in pace. Ma Aristotele, proponendoci la figura per mezzo da imparare e da conoscere l’uomo di cui è figura, ci propone un mezzo men conosciuto che non è la cosa che dobbiamo conoscere, conciosia cosa che la figura non possa essere più naturale o più simile o tanto quanto è l’uomo conosciuto, né altri n’ha bisogno conoscendolo ottimamente prima, ma egli prende la rassomiglianza della figura per mezzo da comporre le similitudini e le dissimilitudini d’essa figura con quella dell’uomo figurato, come è stato detto. Egli è ben vero che alcuna volta si prende la figura per mezzo da imparare il figurato, ma allora la figura è più conosciuta a colui che dee imparare che non è il figurato, sì come è la figura del leofante, il quale altri per mezzo della figura impara, e conosce come sia fatto il leofante ; e di sopra dicemmo questa dello’ mparare quello che non sappiamo essere una delle cagioni perché ci diletti la rassomiglianza.
Επεὶ ἐὰν μὴ τύχῃ προεωρακώς etc. Cosa monstruosa e mai più non istata e non conosciuta a noi per veduta o per udita o per altra via, dipinta non ci diletta, quanto è al diletto che procede dalla rassomiglianza, quantunque la dipintura ci possa dilettare per altro ; e tali sono alcune tele dipinte in Fiandra. Medesimamente cosa monstruosa e non mai più stata o non ricevuta dal commune giudicio del popolo per possibile ad avenire o per verisimile, posta in poesia non ci può dilettare, quanto è al diletto procedente dalla rassomiglianza ; bene può quel poema dilettare per altro, come per purità di parole o per ornamenti di figure e per suono di versi. E peraventura tali azzioni monstruose si troverebbono nel Morgante di Luigi Pulci e in alcuni libri scritti in ispagniuolo.
Οὐ διὰ μίμημα ποιήσει τήν ἡδονήν. Se il testo si legge οὐ διὰ μίμημα, come è stampato, non ha difficultà niuna ; ma se si legge οὐ μίμημα,come afferma Pietro Vittorio leggersi in tutti i testi scritti a mano, è da sporre οὐ μίμημα, cioè l’opera fatta per rassomiglianza non opera per sé diletto, ma per artificio o per colori o per altro.
Κατὰ φύσιν δὲ ὄντος etc. Poi che Aristotele ha provato che la rassomiglianza è naturale all’uomo per quattro ragioni, la quale rassomiglianza è una delle cagioni della poesia, cioè della materiale, di nuovo la ripiglia e brevemente la ridice e v’accompagna la seconda, che è l’armonia e ’l numero, sotto la qual cagione si comprende ancora il verso. Né si dà a provare che l’armonia sia naturale all’uomo, perché altri l’hanno provato, né ciò aveva contrasto.
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(I, 6 ), t. I, p. 51-52
Qui trapassa Aristotele a dichiarare la seconda spezie principale della rassomiglianza poetica già proposta, che diciamo potersi domandar materiale ; la quale si sottodivide in tre, secondo che ha per soggetto le tre maniere d’uomini : migliori, piggiori e simili a noi. E in questa spezie seconda fa quello che non ha fatto nella prima né farà nella terza, cioè tenta di provare per ragione che la materia debba essere atterzata, non avendo pur fatto un minimo cenno di niuna ragione perché lo stormento sia di tre maniere, né essendo per farlo perché il modo similmente sia di tre maniere. La ’ntenzione adunque d’Aristotele è di provare che la materia rassomigliata si constituisce di tre maniere di persone, di migliori, di piggiori e di simili a noi, per potere constituire, avendo riguardo alla materia, tre spezie di poesia. Le persone rassomigliate sono di due maniere : o buone o ree ; adunque sono di tre, percioché le due costituiscono le tre, essendo i buoni e i rei o migliori o piggiori o simili a noi. Ma perché altri poteva negare che i rassomigliati fossero o buoni o rei, lo pruova così. I costumi o sono informati da virtù o sono informati da vizio, e sono in ciascuno uomo o gli uni o gli altri ; per gli quali costumi gli uomini massimamente tra sé sono differenti, cioè alcuni sono buoni e alcuni sono rei; adunque sono due maniere d’uomini : i buoni e i rei. E perché di nuovo altri poteva dire : « Io credo che ciascuno sia o buono o reo, ma ciò non si conosce sempre », « Anzi — risponde Aristotele — si conosce sempre, perché i costumi accompagnano sempre coloro che fanno e si scoprono sempre nelle azzioni ». E perché ultimamente poteva altri dire che i rassomigliati non fossero occupati in azzione mentre erano rassomigliati, prende Aristotele per cosa manifesta e per primo principio che coloro che fanno e sono occupati in azzione soli si rassomigliano, e non altri. Adunque due sono le maniere degli uomini rassomigliati, l’una de’ buoni e l’altra de’ rei, dalle quali due procedono tre : la prima de’ migliori, la seconda de’ simili a noi e la terza de’ piggiori ; e accioché altri non istimasse cosa sconvenevole che i buoni e i rei si dividessero in tre maniere, mostra che simile cosa si fa ancora nell’arte de’ dipintori ; li quali, essendo gli uomini divisi in belli e in brutti, gli effigiano dividendogli in tre maniere : o più belli, o più brutti, o simili a noi.
Ἐπεὶ δὲ μιμοῦνται οἱ μιμούμενοι πράττοντας, etc. Di qui si può chiaramente vedere che Aristotele raccoglieva queste cose e riponevale come certe memorie in questo volume, per avere una memoria apparecchiata da potere, scegliendo poi le cose buone dalle ree, compilare un libro ordinato e rispondente a se stesso per tutto ; poiché quello che dice qui non solamente non è vero, ma si discorda ancora da quello che dirà poi ; conciosia cosa che, quando parlerà della persona tragica, sia per ricevere la migliore, la piggiore e la simile a noi, quantunque lodi più la simile a noi o la migliore, né perciò si varia spezie di poesia. Adunque della bontà o della malvagità soprana o mezzana non si dee tener conto niuno in poesia per constituire spezie di poesia, ma se ne dee tener conto in quanto intendiamo di metter compassione o spavento negli animi de’ veditori o degli ascoltatori, le quali cose richieggono più la mezzana bontà che la soprana. Né è vero che gli uomini rassomiglianti rassomiglino gli uomini occupati in azzione per iscoprire i costumi, come non oscuramente pare che vogliano significare le parole d’Aristotele, li quali costumi sono compagni apparenti e perpetui di coloro che fanno e ci donano conoscenza de’ buoni e de’ rei ; percioché, se ciò fosse vero, la poesia sarebbe rassomiglianza principalmente de’ costumi e della bontà e della malvagità, il che a niuno partito del mondo non vuole Aristotele, secondo che si vedrà appresso. Ma la poesia è rassomiglianza di coloro che fanno, cioé è rassomiglianza d’una favola simile ad istoria memorevole non avenuta, ma possibile ad avenire. La qual poesia si distingue in diverse spezie non per bontà o per malvagità de’ costumi delle persone che sono elette dal poeta da rassomigliare, ma per gli stati delle persone, o reali o cittadine o contadine ; e avendo rispetto a quelle, s’eleggono principalmente le favole convenevoli alla loro condizione, che non sono altro che azioni non avenute ma possibili ad avenire, non per iscoprire i costumi o la bontà o la malvagità, ma per dilettare con la novità del caso quanto si può il più il commune popolo, il quale n’è capace e ne prende maggior diletto che non fa della dottrina o dello scoprimento de’ costumi o d’insegnamento appertenente ad arte o a scienza o di cose usitate ad avenire sempre ad una guisa.
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, t. I, p. 59-60
Πολύγνωτος μὲν κρείττους, etc. Non si deono intendere queste parole, κρείττους καὶ κακίους, della bontà o del vizio dell’animo, ma della bontà o del vizio del corpo, cioè della bellezza o della bruttezza corporale, nelle quali cose la dipintura dimostra il suo artificio, o sieno o non sieno la bellezza e la bruttezza maggiori che non sono quelle degli uomini della presente età o così fatte. Io so che Aristotele di sotto dirà che i dipintori nobili hanno in casa uno essempio perfetto di bellezza, o nella mente, nel quale riguardano quando vogliono fare una figura compiuta ; e par che qui presupponga che abbiano o debbano avere non solamente uno essempio perfetto di bellezza, ma ancora di bruttezza, nel quale debbano altresi riguardare quando vogliono fare una figura brutta compiutamente ; ma che quando non si curano di fare la figura perfettamente bella o brutta, basta loro il fare le figure secondo che sono gli uomini communemente formati dalla natura, li quali non arrivano mai a quella perfezzione ultima di bellezza o di bruttezza a che è pervenuto l’esempio formato dall’arte. E so ancora che Aristotele di sotto dirà che il nobile poeta dee avere nella mente una idea della perfezzione della bontà, nella quale dee affissare lo ’ntelletto quando vuole rassomigliare pogniamo un valoroso, un magnanimo. E pare che presupponga in questa particella che non pure debba avere l’idea della bontà perfetta, ma ancora della malvagità perfetta, alla quale si rivolga col pensiero quando dee rassomigliare un codardo, un pusillanimo, contentandosi di rassomigliare i buoni o i rei dell’età nostra o i communi uomini, quando non intende di fare cosa perfetta, non essendoi buoni o i rei dell’età nostra o i communi uomini compiuti e giunti all’ultimo termino di bontà o di malizia. Ma è da por mente, come già abbiamo detto, che la poesia non riceve distinzione di spezie per perferzione di bontà o di vizio di persone introdotte nel poema o di meno perfezzione, ma sì per la varietà degli stati delle persone, secondo che o sono reali o cittadine, cioè mezzane, o contadine ; e appresso che non è vero che il poeta debba avere nell’animo suo una idea di somma perfezzione del vizio o della virtù, o pure della meno perfezzione, nella quale per comporre bene il suo poema debba riguardare. Ma io dico bene che dee avere una idea nell’animo suo della perfettissima e dilettevolissima istoria, dalla quale non si dee mai con la mente scostare quando fa il suo poema, a cui per dargli compimento e per farlo simile a quella idea fa bisogno alcuna volta d’un valente in soprano grado, e alcuna volta d’un codardo in soprano grado, e alcuna volta d’un mezzano tra valente e codardo, altramente la favola riuscirebbe o poco verisimile o poco maravigliosa. E dico parimente che il dipintore, quantunque debba sapere infino a qual termino si possa stendere pogniamo la bellezza d’una donna, non ignorando le proporzioni delle membra, e di ciascuno per sé e di tutte insieme, e de’ colori, e similmente infino a qual termino di turpitudine si possa fare una contrafatta donna, non sarà perciò più lodato dipingendo la bellissima o la turpissima donna che la mezzana, o rassomigliando una certa donna naturale, posto che non sia d’eccellente bellezza o bruttezza, conciosia cosa che l’arte del dipingere non consista in fare una figura in sommo grado bella o in sommo grado brutta, ma in farla simile al vero e al vivo e al naturale.
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(III, 16), t. I, p. 444-446
Ἐπεὶ δὲ μίμησις ἐστιν ἡ τραγῳδία βελτιόνων, ἡμᾶς δεῖ μιμεῖσθαι τοὺς ἀγαθοὺς εἰκονογράφους. Cominciò Aristotele di sopra a parlare della secunda parte della qualità della tragedia, la quale contiene i costumi ; e avendo detto che quattro cose v’erano da considerare, e come ancora vi si doveva considerare la necessità o la verisimilitudine, passò a raggionare delle soluzioni delle difficultà, e, presa cagione, ha detta alcuna cosa delle cose non ragionevoli. Ora torna a favellare de’ costumi, insegnandoci che per figurargli bene dobbiamo seguitare l’usanza de’ buoni dipintori d’imagini, avendo una idea de’ costumi perfetta nella quale riguardiamo quando vogliamo costumare le persone, si come essi hanno uno esempio di perfetta bellezza nel quale riguardano quando vogliono effigiare una persona bella. E è da por mente che questo insegnamento non è congiunto con le cose dette di sopra, ma posto in questo luogo a caso, siccome molte altre cose sono poste in molti altri luoghi di questo libretto. Adunque a provare che noi dobbiamo fare uno esempio perfetto de’ costumi, usa questa dimostrazione. Così come i dipintori che figurano i belli gli figurano bene perché s’ hanno prima fatto uno esempio perfetto di bellezza nel quale tuttavia riguardono, così il poeta della tragedia, la quale è rassomigliatrice de’ migliori, dee avere uno esempio de’ costumi perfetti, a cui nel costumare le persone miri continuamente. Prima, io dubito che lo insegnamento donatoci da Aristotele non sia vano, o non sia per giovarci molto, se egli non ci ’nsegna ancora quale debba essere e come lo dobbiamo formare. E se si dirà che egli, ragionando de’ costumi adietro, ci ha assai insegnato quale sia e come debba essere fatto, perché adunque di nuovo ci torna a dire quello che già ha detto ? o perché non ci rimette a quello che ha detto ? Ma non è vero che egli voglia che le cose insegnateci de’ costumi possano constituire questo esempio perfetto, avendoci insegnato che dobbiamo riguardare ne’ costumi mezzani, e non ne’ perfetti, in guisa che seguita che egli infino a qui ci abbia insegnato male, o che qui non ci ’nsegni bene. Ma pogniamo che la dottrina insegnataci adietro de’ costumi si confacesse con quella che ci è insegnata qui, e che ci facesse bisogno de’ costumi ottimi, non ci basterà miga uno esempio perfetto d’ottimi costumi, come basta uno esempio di perfetta bellezza, pogniamo d’una donna, al dipintore per figurare le figure donnesche belle ; percioché i costumi, ancora perfetti in qualunque grado, sono più varii che non è la bellezza della donna, la quale è ristretta dentro da’ termini di liniamenti, di misure e di colori temperati. E poteva Perino del Vago, pittore fiorentino di chiarissima fama a’ nostri dì, con la bellezza di sua moglie, la quale s’aveva constituita nella mente per esempio della soprana bellezza, figurare molte figure di donne, e spezialmente quella della Vergine, riconoscendosi in tutte una maniera sola di soprana bellezza. Ma Giotto, dipintore pur fiorentino molto commendato ne’ tempi passati, non poté, né volle con una maniera sola di maraviglioso spavento figurare tutti gli apostoli nel portico della chiesa di san Pietro a Roma, quando, facendo fortuna, apparve loro il Signore caminante sopra l’acqua, ma a ciascuno particolarmente assegnò una maniera di maraviglioso spavento seperata, né sa giudicare chi gli riguarda quale sia più da lodare. E della varietà de’ costumi, e non atta ad essere compresa sotto uno esempio perfetto solo, si vede l’esperienza nel sacrificio d’Ifigenia sacrificata in Aulide dipinto da Timante, tanto commendato da Plinio, da Quintiliano e da altri.
Τοὺς ἀγαθοὺς εἰκονογράφους. Pare che dovesse essere scritto più tosto ἀγαθῶν che ἀγαθούς, accioché la bontà de’ dipinti rispondesse alla bontà de’ rappresentati, sì come si dice altrove : Πολύγνωτος μὲν γὰρ κείττους εἴκαζεν etc. E è da por mente ché altra è la bontà rappresentata dal dipintore e altra è la bontà rappresentata dal poeta, secondo che fu detto di sopra ; percioché il dipintore rappresenta la bontà del corpo, cioè la bellezza, e ’l poeta rappresenta la bontà dell’animo, cioè i buoni costumi. Appresso è da porre mente, come è detto di sopra, che la perfezzione della pittura non consiste più in fare uno perfettamente bello che in fare uno perfettamente brutto o mezzano, ma consiste in fare che paia simile al vivo e al naturale e al rappresentato, o bello o brutto o mezzano che sì sia, ancora che il dipintore debba sapere quali termini di misure e di proporzioni e quali colori si richieggano a fare un bello.
Καὶ γὰρ ἐκεῖνοι ἀποδιδόντες τὴν οἰκείαν μορφήν etc. Io non credo che i buoni dipintori che rappresentano le persone abbiano questo esempio in casa o in mente, di che parla qui Aristotele, nel quale riguardino quando effigiano alcuno uomo certo e conosciuto o alcuno incerto e sconosciuto, percioché gli effigierebbono tutti simili ; e questo sarebbe vizio e non virtù, sì come a Perino del Vago era attribuito a vizio che facesse le figure delle donne simili a sua moglie. Né mi pare che si legga d’alcuno simile pittore alcuna cosa. Egli è ben vero che, perché con più agio si può coglier dalle statue e dalle dipinture l’esempio e la similitudine che non si può dalle persone vive, si sogliono a coloro che vogliono imparare a dipingere proporre inanzi pitture o statue da rassomigliare, percioché esse ci si presentano inanzi agli occhi in uno stato, e le possiamo contemplare quanto ci piace senza molestia loro, e in qual parte più ci piace ; altramente non veggo che giovi l’esempio domestico.
Ὁμοίους ποιοῦντες. Intendi οἰκείῃ μορφῇ. Adunque i dipintori, facendo l’imagini simili all’esempio che hanno in casa, le fanno più belle che non farebbono senza esempio, o se rappresentano le persone belle conosciute, le fanno più belle ; ma questo è vizio, conciòsia cosa che virtù dell’arte sia non fare più bello, ma fare simile ; o dipingono i più belli con molta agevolezza ; e intendi i più belli, cioè la schiera de’ più belli, in rispetto de’ mezzani e de’ brutti.
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(III, 16 ), t. I, p. 445
E della varietà dei costumi, e non atta ad essere compresa sotto uno esempio perfetto solo, si vede l’esperienza nel sacrificio d’Ifigenia sacrificata in Aulide dipinto da Timante, tanto commentato da Plinio, da Quintiliano a da altri.
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(III, 3), t. I, p. 187
Ma per diterminare ciò[[5:la maggioranza delle parti dell’opere.]] nelle parti dell’opere artificiali si considera solamente la fatica e la ’ndustria maggiore, sì come si può vedere chiaramente la pruova nelle opere dell’arte della pittura, l’istoria, o vero favola, non è di niuna stima, e nell’arte, cioè in quelle dell’arte della poesia, è di tanta stima che Aristotele l’antipone a tutte le altre parti. Il che non procede da altro che dalla fatica maggiore o minore che si pende in diverse arti in una medesima parte. Leon Battista Alberti Fiorentino soleva dire, che i costumi erano la principal parte nella pittura, percioché si richiedeva maggior fatica e industria a rappresentargli che a fare altro.
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(III, 3), t. I, p. 192-194
Καὶ ὅλως ποιηταὶ τοιοῦτοι etc. Io leggerei volentieri τοιοῦτον, in luogo di τοιοῦτοι. Vuole Aristotele dimostrare con l’essempio della pittura che nella tragedia si lasciano i costumi da parte, e dice che veramente molti poeti sono tali verso gli altri poeti, quale fu Zeussi verso Polignoto ; percioché, sì come Zeussi non faceva le figure costumate e Polignoto le faceva, così molti poeti, intendendo de’ moderni, fanno le tragedie senza costumi, e gli antichi le facevano con costumi. Ma è da por mente che quantunque la tragedia e la pittura sieno simili in questo, che l’una e l’altra può essere senza costumi, non sono perciò ὅλως, cioè « del tutto simili » in questo, che i costumi sieno d’uno uguale e medesimo valore nell’una e nell’altra ; percioché i costumi nella dipintura sono stimati assai, e per la difficultà che è in fargli sono la prima parte, secondo la testimonianza di Leon Battista Alberti come fu detto di sopra, ma nella tragedia non sono stimati tanto e si postpongono alla favola, come qui dice Aristotele.
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(III, 15), t. I, p. 420
Ne veggo come la tragedia possa essere senza costumi, che stia bene. Il che peravventura potrebbe avvenire nella pittura, quando si dipingesse persona in tale azione, e stato, che non avesse bisogno di dimostratione di costumi, ancora che, come habbiamo detto, più debba esser lodato il dipintore, che prende a fare le pitture in azione tale, che si richieda il costume, e le fa costumate, per la difficoltà, che è nel dipingere il costume.
Dans :Zeuxis et Polygnote : action et caractères(Lien)
(III, 16), t. I, p. 444-446
[[4:voir aussi portraits ressemblants et plus beaux]]
Ἐπεὶ δὲ μίμησις ἐστιν ἡ τραγῳδία βελτιόνων, ἡμᾶς δεῖ μιμεῖσθαι τοὺς ἀγαθοὺς εἰκονογράφους. Cominciò Aristotele di sopra a parlare della secunda parte della qualità della tragedia, la quale contiene i costumi ; e avendo detto che quattro cose v’erano da considerare, e come ancora vi si doveva considerare la necessità o la verisimilitudine, passò a raggionare delle soluzioni delle difficultà, e, presa cagione, ha detta alcuna cosa delle cose non ragionevoli. Ora torna a favellare de’ costumi, insegnandoci che per figurargli bene dobbiamo seguitare l’usanza de’ buoni dipintori d’imagini, avendo una idea de’ costumi perfetta nella quale riguardiamo quando vogliamo costumare le persone, si come essi hanno uno esempio di perfetta bellezza nel quale riguardano quando vogliono effigiare una persona bella. E è da por mente che questo insegnamento non è congiunto con le cose dette di sopra, ma posto in questo luogo a caso, siccome molte altre cose sono poste in molti altri luoghi di questo libretto. Adunque a provare che noi dobbiamo fare uno esempio perfetto de’ costumi, usa questa dimostrazione. Così come i dipintori che figurano i belli gli figurano bene perché s’ hanno prima fatto uno esempio perfetto di bellezza nel quale tuttavia riguardono, così il poeta della tragedia, la quale è rassomigliatrice de’ migliori, dee avere uno esempio de’ costumi perfetti, a cui nel costumare le persone miri continuamente. Prima, io dubito che lo insegnamento donatoci da Aristotele non sia vano, o non sia per giovarci molto, se egli non ci ’nsegna ancora quale debba essere e come lo dobbiamo formare. E se si dirà che egli, ragionando de’ costumi adietro, ci ha assai insegnato quale sia e come debba essere fatto, perché adunque di nuovo ci torna a dire quello che già ha detto ? o perché non ci rimette a quello che ha detto ? Ma non è vero che egli voglia che le cose insegnateci de’ costumi possano constituire questo esempio perfetto, avendoci insegnato che dobbiamo riguardare ne’ costumi mezzani, e non ne’ perfetti, in guisa che seguita che egli infino a qui ci abbia insegnato male, o che qui non ci ’nsegni bene. Ma pogniamo che la dottrina insegnataci adietro de’ costumi si confacesse con quella che ci è insegnata qui, e che ci facesse bisogno de’ costumi ottimi, non ci basterà miga uno esempio perfetto d’ottimi costumi, come basta uno esempio di perfetta bellezza, pogniamo d’una donna, al dipintore per figurare le figure donnesche belle ; percioché i costumi, ancora perfetti in qualunque grado, sono più varii che non è la bellezza della donna, la quale è ristretta dentro da’ termini di liniamenti, di misure e di colori temperati. E poteva Perino del Vago, pittore fiorentino di chiarissima fama a’ nostri dì, con la bellezza di sua moglie, la quale s’aveva constituita nella mente per esempio della soprana bellezza, figurare molte figure di donne, e spezialmente quella della Vergine, riconoscendosi in tutte una maniera sola di soprana bellezza. Ma Giotto, dipintore pur fiorentino molto commendato ne’ tempi passati, non poté, né volle con una maniera sola di maraviglioso spavento figurare tutti gli apostoli nel portico della chiesa di san Pietro a Roma, quando, facendo fortuna, apparve loro il Signore caminante sopra l’acqua, ma a ciascuno particolarmente assegnò una maniera di maraviglioso spavento seperata, né sa giudicare chi gli riguarda quale sia più da lodare. E della varietà de’ costumi, e non atta ad essere compresa sotto uno esempio perfetto solo, si vede l’esperienza nel sacrificio d’Ifigenia sacrificata in Aulide dipinto da Timante, tanto commendato da Plinio, da Quintiliano e da altri.
Τοὺς ἀγαθοὺς εἰκονογράφους. Pare che dovesse essere scritto più tosto ἀγαθῶν che ἀγαθούς, accioché la bontà de’ dipinti rispondesse alla bontà de’ rappresentati, sì come si dice altrove : Πολύγνωτος μὲν γὰρ κείττους εἴκαζεν etc. E è da por mente ché altra è la bontà rappresentata dal dipintore e altra è la bontà rappresentata dal poeta, secondo che fu detto di sopra ; percioché il dipintore rappresenta la bontà del corpo, cioè la bellezza, e ’l poeta rappresenta la bontà dell’animo, cioè i buoni costumi. Appresso è da porre mente, come è detto di sopra, che la perfezzione della pittura non consiste più in fare uno perfettamente bello che in fare uno perfettamente brutto o mezzano, ma consiste in fare che paia simile al vivo e al naturale e al rappresentato, o bello o brutto o mezzano che sì sia, ancora che il dipintore debba sapere quali termini di misure e di proporzioni e quali colori si richieggano a fare un bello.
Καὶ γὰρ ἐκεῖνοι ἀποδιδόντες τὴν οἰκείαν μορφήν etc. Io non credo che i buoni dipintori che rappresentano le persone abbiano questo esempio in casa o in mente, di che parla qui Aristotele, nel quale riguardino quando effigiano alcuno uomo certo e conosciuto o alcuno incerto e sconosciuto, percioché gli effigierebbono tutti simili ; e questo sarebbe vizio e non virtù, sì come a Perino del Vago era attribuito a vizio che facesse le figure delle donne simili a sua moglie. Né mi pare che si legga d’alcuno simile pittore alcuna cosa. Egli è ben vero che, perché con più agio si può coglier dalle statue e dalle dipinture l’esempio e la similitudine che non si può dalle persone vive, si sogliono a coloro che vogliono imparare a dipingere proporre inanzi pitture o statue da rassomigliare, percioché esse ci si presentano inanzi agli occhi in uno stato, e le possiamo contemplare quanto ci piace senza molestia loro, e in qual parte più ci piace ; altramente non veggo che giovi l’esempio domestico.
Ὁμοίους ποιοῦντες. Intendi οἰκείῃ μορφῇ. Adunque i dipintori, facendo l’imagini simili all’esempio che hanno in casa, le fanno più belle che non farebbono senza esempio, o se rappresentano le persone belle conosciute, le fanno più belle ; ma questo è vizio, conciòsia cosa che virtù dell’arte sia non fare più bello, ma fare simile ; o dipingono i più belli con molta agevolezza ; e intendi i più belli, cioè la schiera de’ più belli, in rispetto de’ mezzani e de’ brutti.
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(V, 5), t. II, p. 328-330
Τοιούτους δ’εἶναι οἵους Ζεῦξις ἔγραφεν, ἀλλὰ καὶ πρὸς τὸ βέλτιον. Vuole Aristotele mostrare, con l’essempio di Zeussi dipintore, che è lecito al poeta il dire cose impossibili, purche sieno migliori che non sono le cose possibili ; come impossibile è per natura una donna che abbia in se tutte le bellezze raccolte quali ebbe la figura d’Elena dipinta da Zeussi ad instantia de’ Crotoniati, li quali la posono per ornamento nel tempio di Giunone. Laonde, sì come scrive Cicerone, esso Zeussi « non putavit omnia quæ quæreret ad venustatem uno in corpore se require posse, ideo quod nihil simplici in genere omni ex parte perfectum natura expolivit. Itaque tanquam ceteris non sit habitura quid largiatur, si uni cuncta concesserit aliud alii commodi, aliquo adiuncto incommodo, muneratur. » Et nondimeno quella pittura, perché era quale doveva essere, cioè bellissima, e per conseguente migliore del possibile, è commendata assai, e non punto biasimata per essere impossibile, cioè rassomigliativa di cosa impossibile. Adunque colui che opponesse a Zeussi direbbe : ἀδύνατόν ἐστι, « impossibile è per natura che tali sieno le persone quali di perfetta bellezza dipingeva Zeussi » ; et colui che lo salvasse risponderebbe, secondo Aristotele, ἀλλὰ καὶ πρὸς τὸ βέλτιον, « egli è vero che per natura non è possibile che sieno tali, ma Zeussi le dee dipingere tali perché meglio sarebbe se fossero tali, sì come il poeta farà bene se rassomiglierà le cose come steano meglio, ancora che sia impossibile che si truovino tali. »
Τό γὰρ παράδειγμα δεῖ ὑπερέχειν. Alcuni vogliono che questa sia la ragione perché i poeti e i dipintori rassomiglino le cose come deono essere, e le facciano più eccellenti che in verità non sono o non possono essere ; cioè che essi le rassomiglino tali per che sieno essempio, nel quale gli huomini riguardando e proponendoselo nella mente debbano, operando secondo quello, dirizzare le loro azioni, o riguardandolo possano riconoscere quale sia la soprana bellezza. Ora, quantunque non neghiamo che queste parole, τό γὰρ παράδειγμα δεῖ ὑπερέχειν, possano ricevere questo senso e dire ciò, nondimeno perché Aristotele di sopra parlò dell’essempio che i dipintori delle persone belle hanno appo loro, in casa o nella mente, della soprana bellezza, nel quale riguardando quando effigiano alcuna persona bella, e la fanno simile, et appresso consigliava i buoni poeti tragici o di mansuetudine o d’altro costume nel quale tenessono la mente fissa quando assegnassono i costumi alle persone, noi crediamo che Aristotele in questo luogo parli di questi così fatti essempi, e che dica che non è una maraviglia se Zeussi figurava le persone più belle che non sono o non possono essere naturalmente, poiché non riguardava alle persone naturali né le rassomigliava quali erano, ma guardava nell’essempio della perfetta bellezza che egli aveva in casa o nella mente, il quale dee passare la communale bellezza degli uomini, altramente non sarebbe necessario, potendosi rassomigliare gli uomini quali erano. E credo che veramente questa sia la ’ntentione d’Aristotele in queste parole, avegna che appaia per l’historia raccontata da Cicerone nel prolago del secondo libro della ’Nventione retorica che Zeussi non avesse essempio di soprana bellezza niuno nella mente o in casa prima che egli dipingesse la figura d’Elena ad instantia de’ Crotoniati, conciosia cosa che, se egli l’avesse avuto, non avrebbe domandato che si fossero fatte vedere le donzelle della città, ne di loro avrebbe elette le cinque più formose per prendere quello fiore di bellezza che fosse più eccellente in ciascuna, e riponerlo tutto nell’effigie d’Elena. Ora, se sia verisimile che i poeti e i dipintori abbiano simile esempio in casa e nella mente, e torni bene ciò a quelli a poetare, e a questi a dipingere, o se sia verisimile che essi facciano l’opere loro perché le loro opere sieno essempio agli altri per operare virtuosamente, o per riconoscere la perfetta bellezza, altro qui non dico, avendone detto a sufficienza di sopra.
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